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In UK si corre il rischio di una recessione come conseguenza della Brexit?

La Gran Bretagna ha espresso con forza e fermezza la sua volontà di uscire dall’ UE indicendo un referendum e adducendo, come principale motivazione, delle ragioni squisitamente economiche e di frontiera. Adesso, su quelle stesse ragioni, si combatte per non uscire, o quanto meno si fa terrorismo psicologico sulla pelle degli votanti al referendum, e su quella di tutta la popolazione europea, disegnando scenari velati di necessità autarchiche di mussoliniana memoria.

Sembra si stiano minacciando embarghi, o piuttosto si stiano prevedendo, tra le numerose conseguenze della Brexit, un forte impatto di segno negativo sulle importazioni di taluni generi alimentari, di farmaci etc. Ma soprattutto, senza ratificare prima dell’uscita definitiva del paese dalla UE i reali margini di incontro, collaborazione e convivenza tra UE e UK, salterebbero -o verrebbero resi più macchinosi- anche tutti i collegamenti tra le varie polizie del mondo. Dunque dobbiamo arguire che il terrorismo fa meno paura dell’ austerity.

L’inflazione non spaventa chi ha votato “Leave”, poichè si tratta di fasce di popolazione che hanno già sofferto periodi di magra per i tagli operati dal governo, politica condivisa (la condizione di Italia e Grecia possono dimostrarlo) in molti paesi dell’ UE; e non temono l’aumento del tasso di disoccupazione poichè hanno trovato un facile capro espiatorio (come in Italia) nell’ aumento del numero di cittadini stranieri sul suolo britannico. Quasi in ogni angolo del Vecchio Continente, però, i feroci difensori dei patri suoli dimenticano che gli stranieri, gli extracomunitari, i clandestini, gli immigrati spesso si accollano lavori che nessuno vuole più fare e -nella loro personale lotta alla sopravvivenza- accettano salari indecenti e nessun rispetto delle norme di sicurezza nello svolgimento delle mansioni loro affidate.

Se non scuote le coscienze l’idea che le frontiere si chiudano ai nostri studenti, a quelli presenti, a quelli che sognano un Erasmus, non si può dire lo stesso per quel che concerne il business; e se il 23 giugno del 2016 i cittadini britannici hanno stabilito che con il “Leave” c’ era solo da guadagnarci, adesso gli stessi motivi diventano, per le inevitabili ricadute economiche, lo spauracchio tra le mani di chi vuole restare europeo.

Infine: se uno dei cavalli di battaglia dei fautori del “Leave” è stata la riconquista della sovranità popolare, (peraltro già garantita dai Trattati costitutivi dell’ UE) non si spiega facilmente la recente affermazione dei vertici del Governo britannico tesi a garantire il rispetto di tali accordi anche dopo aver dato corso alla Brexit.

Eppure, più ci si avvicina al tavolo delle trattative, maggiore è l’agitazione che pervade gli attori coinvolti nella vicenda, cioè coloro i quali sono deputati -per le loro capacità e per il ruolo che ricoprono, a porre in essere l’uscita del Regno Unito dall’ UE: la Brexit, infatti, sta diventando motivo di contesa anche per le questioni inerenti le frontiere interne al paese (vedi l’ Irlanda) e sembra trasformarsi -dichiarazione dopo dichiarazione- nel miglior campo di battaglia per gli esponenti della classe politica.

Il 4 settembre il Parlamento riapre, ha inizio la parte cruciale per i Brexiteers.